Ryuk Leithien
Stringo tra le mani il pezzo di carta, rileggo e rileggo le frasi, le parole, ma è come se non capissi cosa ho appena scritto, eppure è un discorso semplice, gli ordini da dare ai miei soldati con le varie direttive e... mi scoppia la testa. Porto entrambe le mani al capo e resto fermo per qualche istante, non posso neanche permettermi di restare qui, se quella ragazza andasse all'Adamantem ora morirebbe, devo avvisare quelli della terza porta. Mi alzo e,, come un rito già conosciuto attraverso le file di tende, per poi avviarmi al Glados, ne sfioro la superficie, che in un attimo mi permette di attraversare il portare conducendomi a Faradorn. Le colombe sono là, gli occhi verdi che spiccano nel buio, prendo la missiva e lascio che una di loro inizi il proprio viaggio, spiego dove andare e cosa fare. Gli occhi luminescenti sono il segnale che è pronta ed infatti si allontana immediatamente. Fatto. La voglia di entrare in casa e di stendermi sul mio letto è forte, ho solo voglia di far uscire questo guazzabuglio dalla testa ed in questa casa ci sono troppi ritratti, troppi oggetti legati al mio passato, come quel cavalluccio in legno che preparai per Auron, non gliel'ho mai dato, che stupido. Torno all'accampamento ed in un attimo mi ritrovo nella mia tenda, seduto... a pensare ancora. E' istintivo il gesto di aprire il cassettone e tirar fuori il mio violino, mi è sempre stato d'aiuto per acquietarmi. Ho bisogno del fresco della sera e delle note a farmi da coperta, di nient'altro... o forse solo di qualcosa che mi distragga. Ancora una volta mi ritrovo ad osservare il lago di sera
ancora una volta le statue che lo custodiscono sono mie compagne in una notte che soffia una leggera brezza, che finalmente annuncia l’inverno, il gelo mi ritempra, mi fa sentire bene, lo sento che mi pervade i polmoni e si espande a tutto il corpo come una rigenerazione che mi regala la natura.
Mi siedo in terra, lo stesso posto di ieri, la stessa pietra di fianco a me, comincio ad affezionarmici, dovrei trovarle un nome, e la stessa calma apparente. Questa volta non mi stendo, non ho voglia di riposare, mi sento ancora pieno di forze, anche se la testa è stranamente pesante.
Stringo il violino nella mano sinistra, l’osservo nelle sue linee, nel suo colore, è logoro ed ho provato a restaurarlo numerose volte, ma si sta indebolendo sempre più, non è legno pregiato, questo era il mio preferito perché apparteneva a mia madre, è molto più vecchio di me e di lei, apparteneva al suo casato da almeno tre o quattro generazioni, ma mi è sempre piaciuto. Sfioro le corde consumate, prima o poi dovrò sostituirle, ma il suono è ancora perfetto.
Lascio che il suono di una corda si espanda basso, appena toccato, appena udibile. Sfioro altre corde, altre note, mi rilassa, mi ha sempre aiutato a distrarmi o a tirare fuori quello che sento. Non sono il genere di persona che esprime ciò che prova a parole, a meno che non si tratti di insultare o far sentire una nullità qualcuno, tranne che per qualche consiglio sporadico, spassionato, dispensato qua e là. Mi esprimo senza parlare, con i gesti che sono fin troppo eloquenti per chi presta attenzione. Ho imparato a fare molte cose, perché posso tirare fuori cosa mi gira per la testa, senza che persona alcuna ascolti i miei pensieri, cucinare, intagliare, suonare… le parole mi hanno provocato troppi danni nella mia vita, ho imparato a farne a meno, quando si tratta del mio personale. A volte le note vengono fuori da sé, come se suonassi una melodia sussurrata all'orecchio, mi piace immaginare che sia mia madre a farlo. Porto la mano destra all'archetto e lascio che scivoli sulle corde, lascio che i pensieri confluiscano dalla mente al braccio, dal braccio al violino, mentre una melodia prende vita e si propaga bassa e lenta attorno a me