"Sta buona, se annuisci che non urlerai, ti levo il bavaglio" le dissi mentre affilavo alla mola Giuramento. Una gran bella spada, lunga, affilata, la lama bianca venata d'azzurro, caratteristica dell'acciaio di Aeglos. Le scintille rosse che zampillavano dalla ruota illuminavano debolmente quella cascina abbandonata nel bosco, che un tempo era stato uno dei rifugi più usati dalla famiglia Dreth durante le battute di caccia. Mi ero stabilito a vivere lì già da un po' e non l'avevo detto a nessuno, se non a Vicent. Quell'idiota non aveva smesso di cercare la sua preziosa Selene per tutta Winterhold e invece era proprio a due passi da lui. La verità era sempre stata sotto il suo enorme mento ma non aveva voluto riconoscerla. La testolina bionda della fanciulla si chinò per accennare il suo assenso: sarebbe stata buona e in silenzio, nonostante gli occhi continuassero a piangere in modo sempre più veemente. Mi staccai dallo strumento e mi piegai, così da liberarla da quel pezzo di stoffa che non doveva avere un buon sapore: fu una brava bambina, mi ringraziò persino. Forse voleva rabbonirmi, forse era nella sua sciocca natura, ma mi fece incazzare ancora di più. Quel suo
"grazie" suonò come un affronto. Un'offesa alla verità. L'avevo rapita, l'avevo stuprata per tre giorni, l'avevo legata e imbavagliata: come poteva ringraziarmi? Tra le lacrime, poi, le si accese anche la speranza: fu la prima volta che la vidi, scintillante e luminosa come la stella polare. E fu la prima volta che pronunciai la frase per cui molti mi avrebbero ricordato:
"Se speri che ci sarà un lieto fine, non hai prestato attenzione". Impugnai Giuramento, la strinsi con la convinzione e la determinazione che scorrevano nel mio braccio. Non tremavo, nonostante le avessi voluto bene. La guardai fissa, i nostri occhi incatenati come in un antico rituale di morte. Mille emozioni attraversarono il cielo delle sue iridi e l'ultima, la suprema paura della fine, si fissò nel vacuo delle pupille dilatate e spente, delle sclere bianche come il latte, quando la vita l'abbandonò, quando la mia lama recise il bel collo d'avorio di Selene. La testa rotolò ai miei piedi, ma prima di raccoglierla, le sfilai l'anello di fidanzamento dal dito e me lo misi in tasca. Era il mio giusto bottino per aver trionfato su quella isteria adolescenziale che avevano chiamato
"amore". Era il giusto balsamo sulla mia ferita. Era il memento della mia crudeltà che mi avrebbe accompagnato sempre. La porta si spalancò, l'ombra alta e possente di mio cugino mi si parò davanti e io con la spada in una mano e i capelli biondi di Selene stretti nell'altra mi limitai a dirgli:
"Mi spiace Vicent, come vedi... Selene ha perso la testa per me". Mi si scagliò contro con tutta la sua furia e mio padre, con alcuni uomini, fece irruzione nella cascina, così io atteggiai il volto con la maschera del personaggio che avrei interpretato in quei giorni.
"Vicent, come hai potuto farle questo?" esclamai dolente, affranto. Quella cascina che conosceva solo lui, quella spada che era la sua, la fidanzata che non portava più la sua fedina. Tutto era andato secondo i miei calcoli.