Prologo
16 settembre.
Sono appena tornata dallo stage in Inghilterra, ed è filato tutto liscio. Mi sembra strano dire che Saint-Josh mi sia mancata, eppure quello stage era la mia fuga, la mia occasione per fuggire da tutto questo. Probabilmente il gene "bisogno-di-fuga" è qualcosa che si tramanda di madre in figlia, nella mia famiglia. Appena ci ho pensato mi sono pentita amaramente della scelta fatta a Luglio: partire, per quanto sia stato divertente, non era esattamente la scelta esatta.
E le conseguenze delle scelte sbagliate, non tardano ad arrivare: non appena ho rimesso piede qui, nella mia cittadina natale, le notizie non sono state ottime.
Ma prima di affrontare questo discorso penso sia indispensabile presentarmi, anche solo brevemente.
Mi chiamo Edie, Edie Bloomwood e sono nata a Sain-Josh diciotto anni fa, quasi diciannove. Sono sempre stata circondata da una famiglia felice nei primi anni della mia vita. Non potrò mai dimenticare la domenica mattina l'odore di caffè preparato da mia madre Molly che si propagava in tutta la casa. Era così forte che riusciva a svegliarmi, ma non mi infastidiva, anzi: posso affermare con certezza che il sabato notte mi addormentavo attendendo quel momento. Ricordo i pranzi con i miei nonni e i miei cugini. Pensavo - e ne ero realmente convinta, non lo dicevo per pura formalità - che la mia famiglia fosse unitissima, allora, pronta a sostenersi nei momenti di bisogno. Peccato che i momenti di bisogno comprendessero solo il fare da baby-sitter ai bambini quando i genitori erano impegnati in ospedale a far nascere un altro bambino; oppure semplicemente scambiarsi quella determinata ricetta o raccogliere firme per chissà quale stupida causa. Infatti, quando all'età di dieci anni, tornando dal parco giochi in macchina con mio padre siamo usciti fuori strada, inizialmente tutti si occupavano di mia madre in ospedale, mentre io e mio padre Michael eravamo in coma quei primi giorni.
Poi le cose sono precipitate: io mi sono risvegliata, non ricordo molto bene tutte le dinamiche seguenti, ma per tutte le volte che mia madre e i nostri parenti ne riparlavano ormai sono capace di dirvi nei minimi dettagli molte cose accadute mentre io stessa ero addormentata. Mio padre aveva subito un grave danno cerebrale, e per questo ci venne data la notizia più brutta che potessi mai augurarmi: non sarebbe stato più lo stesso, era regredito allo stadio di un bambino di otto anni insicuro di se stesso e parecchio timido. Ricordo che negli anni successivi a quel grave incidente non accettavo molto questa situazione, sbagliando dicevo che avrei preferito sapere che fosse morto piuttosto che vederlo in quel determinato stato. Ma mi sbagliavo, e me ne resi conto subito dopo, quando ho realizzato che i piccoli gesti che faceva per me, riconoscendomi come quella che era un giorno "la sua piccolina" e facendomi capire che lo ero ancora, che lo sarei stata per sempre. Quelle sue scuse, quei suoi "mi dispiace" che leggevo ogni giorno nei suoi occhi, tutt'oggi per me sono delle pugnalate dolorosissime. Cerco di stargli accanto come posso, e lui sembra soddisfatto il più delle volte.
Quando avevo diciassette anni, ovvero l'anno scorso, una mattina mi svegliai e scoprii mio padre in cucina già sveglio, da solo con un foglio in mano. Era una lettera, e per quanto il concetto d'abbandono fosse stato formulato in modo troppo complesso non era un concetto a mio padre sconosciuto. Aveva capito che mia madre se n'era andata via, non si sa dove e non si sa tanto meno con chi. Via. Puff. Molly via dalle nostre vite. Da quel giorno non ho mai lasciato solo mio per un solo giorno, ero sempre accanto a lui, contando sull'aiuto di Teresa, una signora amorevole e in pensione che si occupa di noi e mi permette di andare a scuola tranquillamente, sapendo di non lasciarlo solo. Economicamente ci sostiene mio fratello, ormai trentenne, finito in qualche posto esotico con la sua nuova famiglia. Per lui non è un problema aiutarci, sono spiccioli per lui. L'essenziale è non farci vivi. Il compromesso è accettato, ho sempre pensato che fosse un idiota, tanto.
Quest'estate la scuola mi ha offerto la possibilità di andare in Inghilterra per due settimane grazie ai miei ottimi voti, al mio ritorno, consapevole dell'errore fatto, le parole di Teresa non furono una sorpresa per me.
"Edie, tuo padre pensava che tu te ne fossi andata." sospirò la donna, evitando il mio sguardo. Presi a mordicchiarmi il labbro inferiore con rabbia e abbassai a mio volta lo sguardo, imbarazzata.
"Immagino, infatti appena ci ho pensato ho iniziato a chiamarlo due volte al giorno" tentai di scusarmi come potevo.
"Bhè, ha aiutato molto. Anche se penso che finchè ti vedrà ogni giorno sarà convinto che tu starai sempre con lui" l'angolo della bocca della donna si sollevò leggermente, gli occhi presero una sfumatura di compassione. l'espressione nel complesso non mi piaceva affatto.
Fessurizzai gli occhi ed incrociai le braccia sotto il seno. Mi piazzai sulle labbra il solito sorrisino di cortesia e sfarfallai le ciglia. "Io starò sempre con lui", pronunciai con un tono di sfida, anche se il mio aspetto cercava di nasconderlo.
La donna sorrise, e scrollò la testa. "Oh,sarà anche vero, ma puoi anche smetterla di fingere di esserne felice" continuò, con quel sorrisetto mezzo accennato dipinto sul volto.
Flessi un sopracciglio. "E' normale che io non sia felice, ma alla fine ciò che conta è che io starò sempre con lui" ribattei, leggermente offesa.
La donna sorrise, e con un cenno del capo mi salutò. L'osservai percorrere il vialetto di casa e raggiungere la parte opposta della strada. Sospirai. Dovevo prepararmi ad entrare in casa e osservare mio padre senza lasciarmi corrodere dai sensi di colpa.
Spostai lo sguardo sull'orizzonte che Saint-Josh mi proponeva e questa visione mi rassicurò. Volsi le spalle a quello spettacolo e mi avvicinai alla porta principale.
L'odore che mi colpì non appena aprii quella porta era un odore buonissimo, a me familiare. Potevo ancora sentire rimasugli di caffè,nell'aria. Sorrisi, e mi avvicinai alla poltrona dove mestamente era seduto mio padre. Mi chinai e gli baciai la fronte. Lui non accennò nessun sorriso, mi osservò e basta. A quanto sembrava, sarebbe stato più difficile del previsto. Presi posto all'estremità del divano accanto alla sua poltrona, e iniziai ad osservarlo. Presi a parlare poco dopo, una volta preso tutto il coraggio.
"E' stata una bella vacanza, ma niente di che. Londra non è bella quanto dicono. Preferisco lo spettacolo campagnolo di Sain-Josh" proferii tutto d'un tratto, sorridendogli.
Non mi osservava ancora negli occhi, ma potei notare facilmente un guizzo nel suo sguardo, un guizzo di felicità.
"E sai perchè? Perchè qui ci sei tu, e lì invece non ci sei. Sarà bella quando ci andremo insieme." Completai.
Ero riuscita a strappargli un sorriso, mi si avvicinò e mi scoccò un bacio sulla guancia.
"Ecco, bravo, niente broncio. Se vuoi vedere la tv, guardarla, io disfo i bagagli al piano di sopra" lo rassicurai, e gli rivolsi l'ennesimo sorriso.
Salii le scale in fretta e una volta arrivata nella mia camera, iniziai a disfare i bagagli e a riporre i vestiti nell'armadio. Strizzai gliocchi: dovevo cucinare e non ne avevo voglia.
Prima di scendere mi gettai sul letto, in modo scomposto e fissai il soffitto, il tutto per un minuto o due. Pensai a mio padre e com'era una volta, pensai a mio padre e come era ora.
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Avevo voglia di piangere, ma mi trattenni. In quei momenti di sconforto era essenziale andare avanti e non pensarci. Alla fine era sempre lui, solo meno eloquente e più insicuro.
Era la mia sfida personale, questa.
FINE PROLOGO