CAPITOLO III: QUARTA LEGGE DI FARBER (Parte 2)
"La necessità procura strani compagni di letto"
"Vediamo, vediamo" Ed ecco a voi la collezione primavera-estate di Dior, modello bettola fatiscente!" Tami sul divano guardava compiaciuta la sua creatura mentre Gus accennava sorridente pose da fotomodello, soddisfatto del suo regalo di compleanno.
"E' un tendone da circo, dovrebbe farti riflettere questa cosa. Quando ho visto le tre X ho pensato subito a te!"
"So che non è così, sorella. E' stata la birra a farti pensare a me"
"Uh ragazzi" dissi io "è veramente tardi, tra mezz'ora i miei piedi dovranno essere piantati sotto a quel palazzone lì in fondo"
"Dire più semplicemente che tra mezz'ora hai il colloquio no?" mi rispose Tami "Murph, le cose facili proprio non ti appartengono eh?"
"Non sono io, è la vita ad essere complicata, sorella" e con la fase più scenografica che potessi dire mi ritirai nelle mie stanze.
Presi da sopra il mio letto la camicia che Tami mi aveva preparato: mi piaceva la sua abilità nell'abbinare colori e fantasie ma nonostante ciò Gus le ripeteva più volte quanto poco amasse il suo modo singolare ed astratto di fare arte, ma Tami aveva dalla sua parte la comunità degli aspiranti artisti della città che la apprezzavano sia come pittrice che come scultrice professionista capace di riscuotere un numero non indifferente di consensi anche tra i profani.
Mi annodai la cravatta e benché la sua utilità fosse quella di darmi un'aria da rispettabile uomo in cravatta, continuavo a sentirmi un rispettabile idiota in cravatta.
Cercai di mettere a tacere le mie paranoie su tutto, sulla cravatta, sull"™azienda, sul mio futuro capo e mi sforzai di non pensare che tutte le volte che la vita mi aveva dato un'occasione l'aveva saputa rendere "indimenticabile" senza mai perdere il suo sempreverde, cinico e maledetto senso dell'umorismo. E il povero Murphy sul cartellone d'ingresso del teatro come protagonista principale della tragicommedia.
***
L'elegante palazzo della F&E si trovava a pochi isolati di distanza da casa. Fra i tanti palazzi ultramoderni i colori caldi e l'architettura antica dell'edificio erano una piacevole visione. Probabilmente guardandolo da fuori nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che lì dentro avesse la sua sede un'azienda avviata e all'avanguardia.
Mentre entravo in ascensore realizzai, nonostante mi fossi sforzato di mantenere un passo piuttosto lento, di avere lo stesso il viso imperlato di sudore e la pelle che mi bruciava lì dove avevo passato il rasoio per radermi la barba (non tutta a dire il vero, non riuscivo proprio a vedermi senza). In quel momento benedissi gli effetti del dopobarba al mentolo che ancora riusciva a darmi quella finta sensazione di freschezza che mi permetteva di sopportare il bruciore.
Dopo aver percorso un paio di corridoi lunghissimi trovai quello che stavo cercando: una targhetta sulla porta davanti a me recitava "Direttore F&E - Aaron Sanders". Non c'era nessuno nel corridoio. Bussai.
"Avanti" sentì da dietro il legno scuro. Una donna non giovane, poco attraente e imbellettata fino all'inverosimile, molto probabilmente la segretaria del direttore, recitò con voce monotona e stridula "Il signor Sanders riceve per i colloqui nel suo ufficio, aspetti il suo turno in sala d'attesa signorina"
Feci per replicare ma poi mi accorsi che mentre recitava quella formula la donna non aveva alzato lo sguardo dal suo computer neanche una volta. Ma il computer non era neanche acceso.
Quando il sole era già sotto l'orizzonte, le lancette del mio orologio segnavano le 6 e l'intera sala d'aspetto si era svuotata, iniziò a montarmi in corpo una certa ansia e a crescere il timore non tanto di non essere all'altezza del posto di lavoro ma quanto di essere vittima dei colpi bassi della vita, o meglio ancora, vittima di me stesso e della mia goffaggine.
Ad un tratto la porta davanti a me si aprì facendo uscire un giovanotto in giacca e cravatta dall'aria affranta e la segretaria, impegnata a limarsi le unghie, si limitò a fare un cenno stizzito per invitarmi ad entrare nello studio del direttore generale.
"Salve, Aaron Sanders, lei?" Un uomo di mezz'età, brizzolato e con una sigaretta in bocca alzò la testa dalla scrivania di mogano davanti alla quale era seduto e mi diede il benvenuto.
Ancora in piedi risposi prontamente e in preda all'agitazione
"Murphy Thomas, Murphy" di n-nome" dissi balbettando ridicolmente e deformando il viso in un sorrisetto idiota. D'oh! Che cavolo mi era saltato in testa" perché la mia mente non aveva accompagnato la mia bocca neanche in quell'occasione?!? Ecco, lo sapevo" perché, perché avevo quel nome ridicolo e soprattutto perché non potevo fare a meno di rimarcarlo in ogni situazione?!?
"Ahaha! Ha senso dell'umorismo signor Thomas" rigido come uno stoccafisso lo vidi alzarsi, pensavo per cacciarmi a calci dal suo studio, invece" mi mise il braccio intorno al collo e mi portò alla sua scrivania. "Sigaretta?"
"No grazie non fumo"
"Fai bene, fai bene"¦ Il più grande errore della mia vita" Ti posso dare del tu, Murphy?"
"C-certo certo"
"Sai perché faccio di persona i colloqui per il personale?"
"Non saprei, signore"
"Perché qualunque direttore del personale ingrato e stipendiato saprebbe scegliere il migliore architetto del mondo, qualunque testa d'uovo può leggere il numero di lauree che hai ma solo un capo branco ha il fiuto per riconoscere quei giovani che hanno cuore e spirito"
"E-e lei crede c-che io sia uno di questi?"
"Certo che lo penso, ma per favore Murphy vieni, accomodati che facciamo una chiacchierata"
Quello fu solo l'inizio del colloquio di lavoro meglio riuscito della mia vita.
Dopo quasi tre quarti d'ora di conversazione su dove, come, quando mi fossi laureato e su come e perché avessi scelto proprio la Furnish&Enviroment come mia prima nave scuola, concludemmo il colloquio con un invito a bere qualcosa insieme.
"Oggi è stato il compleanno del mio coinquilino e sa, è rimasto un bel pezzo di torta" gradirebbe un invito? Abito a pochi isolati di distanza" proposi io
"Grazie Murphy, se mia moglie mi vedesse mi ucciderebbe, vuole che perda 5 kg entro l'estate, ma sai che ti dico amico mio? Accetto volentieri"
Arrivammo sotto il palazzo in poco tempo tra una parola e l'altra, io ero al settimo cielo, non potevo credere che stesse accadendo a me, che avessi avuto una tale botta di fortuna. Entrammo in ascensore ed uscimmo sul pianerottolo blu del mio appartamento. Prima che io potessi avvicinarmi alla porta mi disse "Ovviamente Murphy Thomas, benvenuto a bordo" e mi strinse la mano con uno sguardo paterno e fiducioso.
Niente e nessuno al mondo avrebbe mai potuto immaginare che la fiducia negli occhi di quell'uomo, sicuro di avere davanti a sé un ragazzo perbene e degno di stima, sarebbe stata di lì a poco tradita dalla sconvolgente e raccapricciante scena che gli si sarebbe parata davanti agli occhi.
Aprì la porta. Una puzza tremenda di alcol invase l'ingresso, note di musica anni '80 sparata a tutto volume ci sopraffarono e un lungo, tremendo e agghiacciante brivido lungo la schiena mi preannunciò l'imminente tragedia. Non potevo, anzi NON VOLEVO credere a ciò che i miei occhi furono costretti a vedere... e a sentire
« Wild boys never lose it
Wild boys never chose this way
Wild boys never close your eyes
Wild boys always shine »
Gus. In mutande. Ubriaco. Con un salvagente a forma di papera. Ballava e cantava "Wild Boys" sul tavolo dove AVREBBE dovuto esserci la torta che AVREBBE dovuto essere la cena del mio capo. E con solo addosso una triste e lurida maglietta grigia a preservare quel poco, quel pochissimo che era rimasto della sua dignità.
Spalancai tutto ciò che il mio viso mi permetteva di spalancare. Non riuscì ad avere altre reazioni. Ero pietrificato. Non ebbi nemmeno il coraggio di girarmi per vedere la faccia del mio (ormai ex?) capo.
Gus si accorse della mia presenza, si bloccò di colpo e iniziò a scrutarmi da sopra il tavolo strabuzzando gli occhi insolitamente dilatati e arrossati. Con un balzo goffo e pesante saltò giù facendo un gran tonfo tanto che neanche la soffice moquette sul pavimento riuscì ad attutire il colpo. Si avvicinò a me con gli occhi sbarrati fino quasi a toccarmi la punta del naso e fece per sussurrarmi qualcosa ma poi purtroppo si accorse di Sanders. Non volevo vedere.
"Io ho le foto di Spiderman" disse con voce bassissima gettando occhiate furtive intorno a sé. Aveva un alito atroce, si sentiva da 1 km. Avevo capito bene?
"Ho le foto di Spiderman signor Jameson" ripeteva in tono sempre più misterioso.
Non sapevo che fare. Lo allontanai dandogli una pacca sulla spalla e accompagnandolo al divano.
Da lontano riuscì a vedere Tami (neanche a dirlo ubriaca anche lei) che barcollava verso di me con in mano una bottiglia di spumante da discount. Riuscì a risparmiare a me e al mio capo un'altra scena pietosa indietreggiando velocemente verso la porta che feci in tempo a chiudere prima di sentire l'eco dei due che strillavano con le voci distorte dall'alcol e sopraffatte dalla musica assordante, "HAPPY BIRTHDAY!!!!".