Andrea GillianStringo la mia presa sulla sua mano cercando di tirarlo dietro di me. So che lui è nettamente più forte di me e che potrebbe liberarsi rompendomela se solo lo volesse ma non m’importa. Vuoi per il terrore, vuoi per la consapevolezza di essere rimasta ormai sola a questo mondo ormai marcio e decadente ma non riesco a liberarmi di lui. L’unico ad aver avuto un briciolo di compassione in più rispetto agli altri. Ho aiutato molti in questi anni, alcuni di loro sono anche qui con noi, destinati alla stessa sorte, ma nessuno di loro si è mai ricordato di me. Né un sorriso, né un saluto. Nulla. E lui, lui invece, mi ha visto in quella stanza sola, impaurita e indifesa, senza avere nessuna arma a disposizione se non una boccetta di profumo e un pezzo d’abito. Ha voluto prendere le mie difese davanti ai cani, davanti al caposwat. «Non potrò più difenderti da morto... dopotutto» sento la presa farsi meno energica segno che l’uomo si è deciso a seguirmi e ci dirigiamo velocemente ai terrazzini.
Epilogo
Una ragazzina assomigliante moltissimo al soldato ci segue, forse sua sorella ma non c’è tempo per le presentazioni. Chiudo velocemente la porta dello stesso portandoli il più lontano possibile dalla stessa. Tempo qualche minuto interminabile e la bombola esplode facendo tremare l’intero edificio. Il silenzio che ne segue lascia intendere un unico finale, la creatura è finalmente morta e con essa tutti gli esperimenti che il medico aveva creato. «È finita! È finita!» ripeto con la voce smorzata dalla paura.
Usciamo lentamente dal terrazzino. Spingo la porta ormai consumata e deformata dall’esplosione evitando di toccare la maniglia sicuramente bollente a causa delle fiamme. Lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi è a dir poco macabro, un qualcosa di rimandabile ai peggiori film catastrofici: brandelli informi e bruciati della creatura sono sparsi per tutto il terrazzo dando alla scena un colorito e un odore rimandabile alla carne troppo cotta. Il tanfo è a dir poco infernale e della creatura non è rimasto null’altro, mi guardo intorno e ciò che vedo è il povero poliziotto in terra bruciacchiato. Mi avvicino un po’ e con orrore noto che è privo di un braccio e di una gamba distrutte insieme al mostro.
L’uomo non si muove e da una prima impressione pare essere morto, non ho più la forza di piangere, non ho più la forza per nulla, niente di niente. Alcuni militari scendono dagli elicotteri e catturano Talbot il quale si è miracolosamente salvato dall’esplosione, è vivo ma adesso rimpiangerà di non aver perso la vita anche lui. «Andrà tutto bene, siamo qui per portarvi in salvo» dice uno dei militari raggiungendoci e guidandoci verso gli elicotteri. Il mio soldato si stacca dal gruppo andando a recuperare il poliziotto il quale ha “magicamente” ricostruito i suoi arti mancanti. “Forse era infetto come quel medico?” l’uomo viene sollevato dalle braccia forti dell’altro e viene caricato su uno degli elicotteri «E’ privo di coscienza, ma è vivo… portate in salvo il nostro eroe» l’altro sale insieme a lui seguito dalla probabile sorella e segnando così la fine del nostro incontro. “Non lo rivedrò mai più…” penso salendo finalmente sull‘elicottero. Mi accuccio in uno degli angoli nascondendomi il volto all’interno del bavero della giacca ed è lì che riverso tutte le mie lacrime. Piango. Piango per cosa? Per sfogo? Per tutta la gente andata? Per l’inferno appena passato? Oppure per un semplicissimo ed egoistico senso di sicurezza e protezione con lui? Non faccio in tempo a rispondere che le mie orecchie vengono invase dall’ennesima gigantesca esplosione. Non ho il coraggio di sollevare lo sguardo fin quando il rumore non cessa sostituito solamente dal rombo delle pale del velivolo. A quel punto la curiosità prende il sopravvento, mi sporgo appena fuori dal portellone e lo spettacolo che mi si para davanti è a dir poco agghiacciante: Bellavista, le sue case, i suoi, i miei ricordi –dolorosi per lo più- distrutti. Tutto brucia e si sgretola come polvere lasciando solamente un cumulo di macerie fumanti. Rientro all’interno dell’elicottero e mi abbasso quanto più, le lacrime non smettono di scendere e comincio a sentirmi patetica e stupida. Mi appoggio a una delle pareti dell’abitacolo e lì cado finalmente in un sonno dal quale spero di non svegliarmi mai più.
Qualche mese più tardi
«Mamma! Mamma!» una bambina corre nella mia direzione, mi fermo a guardarla un attimo,
i lunghi capelli castani coi riflessi biondi le ondeggiano sulle spalle e un paio di occhioni azzurri spuntano da quel groviglio disordinato e sporco di polvere, un mare di lentiggini le inondano il volto dandole ancora di più quell’aspetto innocente e fragile. La bambina si ferma ai miei piedi sollevando le braccia come a voler essere presa in braccio «ehi piccoletta!» dico sollevandola da terra, «ti sei persa?» le dico guardando quei due occhioni che ora cominciano a riempirsi di lacrime, «tu non sei la mia mammina!» dice cominciando a piangere, le sorrido pulendole il viso con le dita e facendola ridere un poco
«vieni, andiamo a cercare la mamma…». Il parco è piuttosto grande e perdersi è molto semplice per una bambina come lei, sua mamma però non può essere tanto lontano. Passiamo una quindicina di minuti a guardare in ogni angolo del parco quando una voce alle mie spalle mi impone di arrestarmi.
Sento una mano, grande e familiare toccarmi una spalla «questa bambina non è sua fi-» mi volto a guardare l’uomo alle mie spalle e quello improvvisamente si blocca. Il mio cuore perde un battito e improvvisamente tutti i ricordi legati a quei giorni riaffiorano nella mia mente, sento un intenso bruciore agli occhi e poco dopo una lacrima mi tradisce facendo capolino da sotto la lente scura degli occhiali da sole. Non avrei mai pensato di rivederlo, anzi, mi ero addirittura abituata al fatto di averlo perso per sempre su quell’elicottero. Il soldato ora è qui, davanti a me, lo stesso armadio che mi aveva protetta per tutto il tempo all’interno di quell’inferno. I suoi occhi azzurri, quasi glaciali si spalancano ancora di più riconoscendomi all’istante
«stavamo cercando sua madre!» dico in un tono freddo al quale oramai il mio animo si è abituato. Ho nascosto quei ricordi a me stessa, ho continuato la mia vita come se quelle giornate fossero state solamente un incubo di una qualche notte passata insonne dopo aver mangiato pesante. Per tutti ero diventata Catherine Holbrook, una ragazza di buona famiglia trasferitasi a Hidden Springs per sfuggire alla vita monotona e chiassosa delle grandi città. Era stato facile sparire dalla circolazione, dopotutto la prostituta Andrea Gillian poteva benissimo essere morta nell’esplosione della palazzina. A chi poteva importare della morte di una donnaccia simile? La visita del soldato ora aveva mandato all’aria i miei piani, i ricordi erano tornati a galla e la fredda Catherine era ritornata l’ingenua, stupida, e poco simpatica Andrea. «Tu sei lei…» mi aveva riconosciuto, ormai non c’erano più dubbi.
Dopotutto, non era difficile riconoscere una chioma rossa come la mia. Ma non ho mai avuto il coraggio di tingermeli una seconda volta. La mia unica tattica era rimasta la negazione, negare, negare sempre. Anche davanti all’evidenza. «Non capisco proprio di chi stia parlando…» dico cercando di mantenere quel tono freddo e distaccato, indietreggio scrollandomi di dosso la sua mano, desideravo quel contatto… Dio solo sapeva quanto l’avevo desiderato nei giorni seguenti l’accaduto, ma oramai avevo abbandonato tutto, la mia mente si era resettata come un moderno computer e tutto ciò che era successo prima di quel giorno era stato nascosto in una partizione segreta all’interno del mio cervello. «Cecile! Cecile!» una voce femminile arriva da dietro gli alberi,
la bambina comincia ad agitarsi in reazione alla donna «mammina!» urla dimenandosi. Mi avvicino alla donna, ignorando per il momento il soldato e rivolgendole un sorriso smagliante. «Per come si dimena, credo che lei sia sua madre…», la donna comincia a guardarmi squadrandomi da capo a piedi sorridendomi successivamente «Sì… lei è mia figlia Cecile… spero non le abbia dato problemi.» la sua voce sembra affannata e, a giudicare dalle gocce di sudore sulla sua fronte, dovrebbe essere davvero preoccupata per la sua bambina «certo che no! È stata bravissima? Vero piccola?» Cecile mi guarda sorridendo e nello stesso istante il soldato si avvicina a noi «Oh Brad… grazie mille per l’aiuto… a quanto pare la signorina qui presente è stata più veloce di te a ritrovare Cecile!»
Brad. Così è questo il nome del mio soldato. Mi volto a guardarlo, indirizzandogli l’ennesimo sorriso… forse meno falso del precedente. “Stupida! Stupida! Stupida!” urla la mia mente in preda al terrore e al nervosismo.